martedì 12 novembre 2013

Nassiriya, dieci anni dopo il fallimento e la retorica di una finta missione di pace

Oggi si rischia l'indigestione di retorica a buon prezzo, visto che letteralmente porci e cani si sono affannati a commentare il decimo anniversario della strage di Nassiriya, dove persero la vita 19 carabinieri italiani uccisi da un attentatore kamikaze. Si parla di "eroi", di ringraziamento della nazione, di "inaccettabile e vile barbarie", come ha fatto il presidente Napolitano, di "caduti per la pace", come ha fatto l'Ordinario militare (una delle categoria di preti pagati dallo Stato) durante la commemorazione. 
Al di là del rispetto che si può concedere ai morti, la politica come al solito non conosce il senso del ridicolo, ammantando di bugie ogni fatto della nostra storia recente. La guerra in Iraq è stato un illegittimo atto di aggressione nei confronti di un paese sovrano, accusato falsamente di avere armi di distruzione di massa e di proteggere i terroristi islamici (quando Saddam Hussein era il peggior nemico degli integralisti di tutta la regione). L'Italia vi ha partecipato grazie alla vergognosa deferenza che il nostro presidente del Consiglio Berlusconi aveva nei confronti di George W. Bush, che lo invitava alle grigliate nel suo ranch in Texas e all'interpretazione estensiva dei reali compiti affidati alla Nato. Altri paesi più seri, come la Francia e la Germania, hanno evitato di farsi coinvolgere in una missione che non aveva affatto l'ombrello dell'Onu. Noi, invece, abbiamo mandato un po' di gente a morire, un po' di gente - sia chiaro - che era lì come volontaria attratta da più lauti guadagni e solo per poi spartirci i soldi della ricostruzione. I bravi ragazzi di Nassiriya erano una forza occupante, altro che balle.
Oggi, in Iraq non ci sono truppe internazionali e non c'è più niente. Un paese costantemente sotto guerra civile, preda di politici corrotti spalleggiati dai poteri occidentali e di scontri sanguinosi fra etnie. E noi abbiamo contribuito a questo schifo.

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