mercoledì 20 agosto 2014

I fucili usati ai curdi: a metà fra Totòtruffa e Alberto Sordi

L'invio ai peshmerga curdi di una partita di armi russe sequestrate vent'anni fa è l'apoteosi della cialtronaggine italiana, a metà strada fra Totòtruffa e l'Alberto Sordi di "Finché c'è guerra c'è speranza". Dopo anni dal ritiro delle truppe internazionali, ci siamo improvvisamente accorti che in Iraq c'è ancora la guerra. Fino a quando il massacro proseguiva sotto il controllo del govrno fantoccio messo in piedi dall'Occidente, delle decine di migliaia di morti non fregava una sega a nessuno. Oggi che un gruppo di pazzi estremisti minaccia seriamente la stabilità dell'intera regione, ci scandalizziamo di fronte alle decapitazioni, agli stupri e perfino - udite, udite - alle discriminazioni contro i cristiani senza renderci conto di essere i principali responsabili, assieme ai nostri alleati di Washington, di tutto questo enorme casino. 
Quindi, che si fa? Ci ricordiamo dei curdi, che quando venivano massacrati dalla Turchia (che fa parte della Nato) erano pericolosi terroristi, oggi invece rappresentano l'eroico baluardo dei valori del mondo occidentale, e gli mandiamo un po' di roba scaduta. I geni del nostro governo si ricordano all'improvviso di quei trentamila kalashnikov custoditi in una base a La Maddalena dopo essere state sequestrate oltre due decenni orsono su una nave Ucraina diretta a Spalato e decidono di contribuire alla valorosa causa facendo un po' di pulizie in soffitta, il tutto accompagnato da una visita lampo del nostro Presidente del Consiglio in Iraq, tipo gita scout, nel quale Fonzie si lascia andare a una dichiarazione impegnativa in qualità di presidente di turno della Ue: ''L'Europa in questi giorni deve essere qui, altrimenti non è Europa, perché chi pensa che la Ue volti le spalle davanti ai massacri, impegnata solo a pensare allo spread, o sbaglia previsione o sbaglia semestre''.
E' vero. Finora non abbiamo mai voltato le spalle davanti ai massacri, abbiamo sempre direttamente contribuito ad alimentarli. Ma c'la crisi, signora mia, e stavolta si dovranno accontentare di qualche vecchio rudere dei tempi della Guerra Fredda. 

venerdì 1 agosto 2014

Manager d'oro, aziende sull'orlo del fallimento e furbetti del quartierino: è la stampa, bellezza!

Meraviglie d'Italia: un gruppo con oltre mezzo miliardo di euro di debiti, che per il quinto anno consecutivo dichiara lo stato di crisi per accedere ai prepensionamenti e alla cassa integrazione dei suoi dipendenti (pagati con soldi pubblici, ça va sans dire), e ha fatto fuori nell'ultimo anno quasi 800 persone, chiudendo 20 testate, liquida il direttore di uno dei suoi giornali (dopo una stagione fallimentare durante la quale le copie vendute sono scese del 5% ogni anno) con una buonuscita di 2,5 milioni di euro, pari a cinque annualità del suo stipendio, e a cinquant'anni (50 anni!!!) di  lavoro di un redattore ordinario. 
Nel frattempo, una testata storica che prende i soldi della legge per l'editoria in quanto giornale del Partito di maggioranza relativa, chiude dopo una gestione dissennata che per molti anni l'ha fatta indebitare fino al collo, nella semi indifferenza generale, come se non fosse figlia di nessuno. E mentre il Presidente del Consiglio fa sapere che a lui della chiusura dei giornali non frega niente, c'è sempre il furbo del quartierino che approfitta della situazione per passare comunque all'incasso e in culo alla spending review. 
I giornalisti italiani sono proprio italiani: dovranno finire in rovina prima che qualcuno alzi la voce e dica chiaramente che questa non è economia, questi non sono manager, questi non sono direttori e soprattutto questo non è un governo.